In estrema sintesi ricordo che gli statuti comunali sono le leggi che i Comuni, dopo la loro nascita, cominciarono a darsi per regolamentare la vita civile della comunità. Il Comune godeva di una certa autonomia e poteva regolare la vita dei propri cittadini con norme che esso stesso si dava e adattava alle proprie esigenze particolari. Vi dico solo che oggi sono considerati tra le fonti giuridiche più importanti del Medioevo e sono studiati come la più viva testimonianza della società comunale. Cominciano ad essere redatti addirittura alla fine del Duecento, poi nel tempo saranno sempre riadattati ai mutamenti sociali, politici ed economici. Quelli originali giunti fino a noi sono soprattutto del Trecento e Quattrocento e molti di essi, con l’avvento della stampa, verranno anche stampati nei primi decenni del Cinquecento.
E’ il caso degli statuti che io ho studiato, ad esempio quelli di Treia, stampati nel 1526 e quelli di Appignano stampati nel 1538, la cui edizione critica pubblicherò a giorni e presenterò il prossimo 10 novembre ad Appignano. Siccome negli statuti si parla di tutto io ho pensato di proporvene uno un po’ vicino allo spirito del Circolo Vegetariano VV.TT. di Treia, ed alla tavola rotonda denominata “Cultura e Coltura”, che qui si tenne il 5 maggio 2012, ed alla quale anch'io partecipai. Si tratta delle norme statutarie riguardanti i più importanti mestieri legati al cibo e al sistema alimentare, e ci accorgeremo che sarà un’immersione nella terra e un tuffo nella natura.
Va detto subito che Treia era un comune a marcata vocazione agricola e, come in tutte le altre località rurali della zona, quasi tutti i mestieri esercitati all’interno delle mura erano in stretta correlazione con le produzioni derivate dalle attività agricole. La terra era considerata il più valido strumento di approvvigionamento alimentare e di profitto e sarà così almeno fino all’affacciarsi dell’industrializzazione.
Ovviamente negli statuti non troviamo né ricette né menù, ma solo tante disposizioni, imposizioni e proibizioni, concernenti il lavoro, i singoli prodotti, la produzione, i prezzi, la tassazione, la conservazione e perfino le norme igieniche. In essi era data particolare attenzione alla regolamentazione di quei mestieri che erano atti a soddisfare i bisogni primari della popolazione, vale a dire i produttori e fornitori di generi alimentari di base, come pane, vino, verdure, frutta e legumi. Questi erano i principali prodotti, con le loro derivazioni, che sia i ricchi che i poveri mangiavano, naturalmente con differenze tra le classi sociali nella quantità e nella qualità. Mi sembra interessante sottolineare che gli statuti confermano quello che ormai è ben noto agli storici: nel Medioevo e anche nei primi secoli dell’Età moderna, non esisteva nei nostri paesi un commercio di viveri con terre lontane. Non compaiono cibi esotici. Ogni comunità si manteneva con quanto produceva il proprio territorio. In questo stando in sintonia con il sistema alimentare "bioregionale". Pochi erano gli scambi di generi alimentari e solo tra località vicine.
Prendiamo ad esempio il mestiere del fornaio. Tale lavoratore era al tempo stesso artigiano e commerciante. Poteva, come accade oggi, preparare il pane e venderlo al banco, ma soprattutto doveva cuocere il pane su richiesta di tutti coloro che gli richiedevano questo servizio al quale il fornaio non poteva sottrarsi. Chi voleva farsi cuocere il pane doveva portare la farina e gli altri ingredienti necessari. I fornai si facevano pagare trattenendo una quota parte del pane cotto. A Treia trattenevano quattro pagnotte ogni venti, per riscaldare il forno, suis lignis, cioè legna del fornaio, o lignis illius cuius essent panes, cioè legna del cliente. Nel primo caso la retribuzione consisteva in panes duos, cioè due pagnotte per ogni tavola infornata, mentre nel secondo caso era sufficiente una sola pagnotta. Sempre a Treia era consentito ai fornai e ai loro familiari circolare nottetempo senza necessità di salvacondotto o lumi, perché quello era un lavoro da fare di notte in modo da far trovare il pane pronto al mattino presto. In entrambe le località i venditori di pane dovevano venderlo ben cotto e secondo i pesi stabiliti dalle autorità comunali, cioè pesandolo con una bilancia contrassegnata dal Comune. V'era inoltre obbligo di porre sul banco una tovaglia bianca e un bastone per toccare le pagnotte che non potevano essere prese con le mani per nessun motivo. Chi veniva colto ad infrangere questa regola subiva una ammenda molto salata. Il pane rotto o toccato non poteva essere venduto a nessuno, nemmeno ai poveri a minor prezzo, pena multe salatissime.
C’era anche l’obbligo di tenere un canestro per riporre le pagnotte quando con la pala venivano estratte dal forno in modo da evitare che cadessero a terra e si rompessero o si sporcassero. Assai vicina sul piano professionale alla figura del fornaio era quella del mugnaio. I mulini erano piccole macine ad acqua, cosiddetti terragni, di quel tipo ricordato da Dante nel XXIII canto dell’Inferno. Treia ne aveva nei vallati del Potenza. I mugnai dovevano restituire la farina, riposta in un sacco, per una quantità corrispondente al peso del grano, o altro prodotto, che era stato macinato. Anche i mugnai si facevano pagare con una quota parte della farina macinata, trattenendone il cinque per cento. Per tale operazione utilizzavano un apposito contenitore di ferro, chiamato “scatula”. Era una specie di grossa scodella omologata dal Comune e recante il sigillo comunale come segno di conformità. Attenzione! Negli statuti era prassi che la metà o altra porzione delle multe riscosse, andasse all’accusatore. Quindi, prima di trasgredire conveniva a chiunque guardarsi sempre intorno. Non va dimenticato che in quell’epoca tutti i mulini, ma soprattutto quelli da grano, godevano in tutti gli statuti comunali di una considerazione particolare perché ritenuti indispensabili per l’acquisizione dell’autosufficienza alimentare che ogni comune andava cercando con insistenza.
Nell’epoca di cui stiamo parlando, e cioè gli inizi del Cinquecento, è ovvio che non si mangiava solo pane di frumento e carne, anzi questi due prodotti potevano permetterseli solo in pochi. E gli statuti parlano anche di altri prodotti alimentari, regolandone la produzione, la vendita e la tassazione. Questi altri prodotti li troviamo soprattutto al mercato dove non c’erano solo commercianti e mercanti di professione, ma anche contadini che provenivano dalla campagna e vendevano i prodotti dei campi e degli orti che coltivavano.
Gli statuti di Treia chiamano questi venditori “triccoli”. Essi avevano nei loro banchi improvvisati pollame ruspante, uova, oche, anatre, piccioni e altri piccoli volatili. Potevano collocarsi nella piazza principale, però separati dai venditori di altre merci, sempre per questioni igieniche, e non potevano iniziare la propria attività prima dell’ora terza, le odierne nove del mattino, perché la loro mercanzia era starnazzante e rumorosa. Ovviamente non perché disturbassero chi ancora dormiva, ma perché avrebbero disturbato le funzioni religiose del mattino che si svolgevano nelle chiese adiacenti alla piazza. Dagli statuti conosciamo gli animali commestibili che i “triccoli” vendevano, oltre quelli già menzionati: fagiani, quaglie, tordi, merli, lepri, tortore, ma vendevano anche verdure e frutta come rape, cavoli, mele, pere, fichi, castagne, agli, cipolle, fave, fagioli secchi, noci, zucche, bietole, erbe di campo, porri e altro, a seconda delle stagioni. Alcuni di questi prodotti erano considerati talmente importanti per l’alimentazione quotidiana del tempo che non potevano essere esportati, come polli, uova, anatre, agnelli, capretti e formaggi. A Treia lo si poteva fare solo con espressa licenza del podestà.
Naturalmente gli uomini e le donne di allora bevevano anche e, inutile ricordarlo, la bevanda per eccellenza era il vino. Gli statuti lo mostrano nelle cantine dei contadini, dei proprietari ma, ovviamente, soprattutto nelle taverne e nelle osterie. Le norme statutarie regolamentavano soprattutto il mestiere del taverniere, mestiere anch’esso soggetto ai dazi di consumo. A Treia i tavernieri, nelle loro tabernae, vendevano vino, olio e carne salata. Era un mestiere difficile perché nelle taverne avveniva di tutto ed era uno dei pochi luoghi dove erano meno evidenti le differenze tra i ceti sociali. Gli osti dovevano usare misure omologate dal Comune e tenere boccali tipo legati ad una catena e, ovviamente, non potevano contraffare vino e olio con altre sostanze, come miele, acqua o acquavite, pena multe salate e in alcuni casi anche la fustigazione. Non si poteva vendere vino di notte, ossia dopo il terzo rintocco della campana della sera e prima del primo rintocco della campana del mattino. E non si poteva somministrare vino ai minori di quindici anni. Noi oggi non ci riusciamo neanche con i superalcolici! Naturalmente si beveva pure acqua la quale, come è sempre accaduto nella storia dell’umanità, serviva anche per cucinare.
Gli statuti comunali, e naturalmente anche i due nostri, parlano molto dell’acqua, specialmente dettando norme soprattutto dal punto di vista dell’igiene, per evitare l’inquinamento da sporcizia di falde, pozzi, fonti e fontane. Multe pesanti erano a carico di coloro che danneggiavano le fontane e le cisterne pubbliche e deviavano i corsi d’acqua. Ma qui il discorso ci porterebbe troppo lontano.
Invece, mi pare sia giunto ormai il tempo di fare una considerazione che a me sembra assai importante. Finora abbiamo parlato di alcuni mestieri legati ai cibi più consumati e più noti: fornai, mugnai, tavernieri, piccoli mercanti, ecc. Ma è ovvio che la filiera non cominciava lì. Il fornaio faceva il pane, ma aveva bisogno della farina che gli procurava il mugnaio il quale senza il grano che gli portava il contadino o, meglio, il proprietario terriero, non lavorava. E via dicendo. In poche parole, come ho detto all’inizio, la filiera cominciava per tutti dalla terra e da coloro che, a vario titolo, la lavoravano. Gli statuti comunali dedicano molte rubriche ai vari tipi di lavoratori della terra e dettano norme precise per ogni lavoro.
E allora, sempre restando in ambito alimentare, vi propongo solo qualche esempio tra i più significativi. Abbiamo parlato di pane e allora andiamo a vedere rapidamente chi produceva il grano. Intanto ricordo che all’epoca il grano, ma anche l’orzo, veniva utilizzato spesso come moneta. Ciò sta a dimostrare l’importanza che all’epoca veniva data a questo cereale. La produzione del grano era indispensabile ad ogni comunità. Ma devo dire che grande importanza veniva data un po’ a tutti i prodotti della terra, specialmente ad altre granaglie minori come la spelta, l’avena, la segale, molto diffuse perché più resistenti alle intemperie. Fornivano un pane rozzo ma ben accettato per sopravvivere soprattutto durante le frequenti carestie.
Tornando al grano, a Treia i mietitori e i trebbiatori trattenevano, come retribuzione, l’uno per cento del grano raccolto, ma dovevano lavorare dall’alba al tramonto. Durante la mietitura i lavoratori mietevano e componevano i covoni sotto il controllo di un rappresentante del proprietario e non dovevano lasciare il grano mietuto nel campo durante la notte. Gli statuti vietavano di raccogliere spighe nei campi prima che il grano venisse ammucchiato nell’aia. Molte disposizioni riguardavano i lavoratori delle vigne, in entrambi gli statuti. Ad Appignano i lavoratori delle vigne erano tenuti a svolgere tutti i lavori stagionali necessari, ovvero potare, zappare, vangare, legare le viti e fare quant’altro era previsto dal contratto stipulato col padrone delle vigne. Eventuali inadempienze venivano punite con la riduzione della quota parte di prodotto spettante ai lavoratori. Ovviamente negli statuti erano presenti multe per quei lavoratori che rubavano uva o altri prodotti.
Nello statuto di Treia è più volte ripetuto che i lavoratori della terra, a vario titolo, erano tenuti a lavorarla quam suas proprias, cioè come se fosse di loro proprietà. E i terreni non potevano essere concessi in affitto o a giornata a lavoratori che non fossero di Treia. Questo naturalmente per favorire l’occupazione dei residenti.
(Discorso di Alberto Meriggi tenuto il 5 maggio 2012 alla Festa dei Precursori, tratto dal libro "Treia: storie di vita bioregionale" di Paolo D'Arpini - Edizioni Tracce)