venerdì 4 agosto 2023

Treia, 13 agosto 2023 - Festa dell’acquacotta...

 


E' arrivato il momento dell’incontro in campagna, qualche erba selvatica, una crosta di pane e di cacio.... Ecco la festa paesana per eccellenza, dedicata ai compagni di viaggio, quelli del “when the saints go marching in…”

Per l'occasione, assieme agli amici di Auser Treia,   invitiamo tutti i nostri compagni di viaggio che seguono il nostro stesso “sentiero” a partecipare al rito dell'acquacotta…

E’ un invito al riposo, al ritorno, nel grembo accogliente della Terra… in questo periodo infatti tutti i semi tendono pian piano a cadere sulla superficie del terreno, in attesa che le piogge autunnali inizino a creare l’humus necessario alla successiva rinascita. 

Tradizionalmente trascorriamo questa giornata oziando e passeggiando, raccogliendo erbe aromatiche e cercando acque fresche alle sorgenti. Alla fine ne esce fuori un “hemlot” come dicono gli inglesi, noi la chiamiamo “acquacotta”. Una bevanda cibo con tutti i sapori e gli odori che la natura ci da in questo momento.

Il 13 agosto 2023, alle ore 18,  appuntamento a contrada Moje di Treia al 34, nei pressi della sorgente del Pisciarello, sul terreno di Chiara e Andrea. La festa inizia con un bagno  sonoro di gong eseguito da Barbara Bianchini, seguirà la presentazione di "Quando non zappo a volte scrivo..." di Felice da San Severino ed un discorsetto di Paolo D'Arpini sull'Alimentazione Bioregionale (basato sul libro edito da Edizioni Nisroch di Macerata).  La serata si conclude con un picnic  e la degustazione dell'acquacotta, con accompagnamento della musica popolare  di  Chiara ed Andrea ed altri suonatori e  l'invito a danzare sul prato. 

Caterina Regazzi









domenica 23 luglio 2023

"Epitaffio e memoria sulla Roverella di Passo Treia" di Valido Capodarca

 

Ammiriamo la grande quercia in quello che è stato il suo ultimo periodo di splendore, in questa foto del 2005. Per gli esperti e gli appassionati, queste le misure: m. 6,50 la circonferenza del fusto, m. 34 il diametro della chioma, m. 23 l’altezza. 450 anni (in questa foto) molto ben portati.


Sono appena tornato dall’aver reso omaggio ai resti mortali di una sovrana.
Mentre, in auto, percorrevo i circa 60 km che separano il mio paese da Passo di Treia, pensavo di dover scrivere il solito panegirico contro la lentezza della burocrazia, contro la negligenza umana che lascia morire un monumento di questa sorta. Invece, appena davanti all’immenso corpo sbriciolato, ho pensato che sia giusto così.
La quercia di Passo di Treia, la più grande quercia marchigiana, per tutta la sua lunghissima vita, ma specialmente negli ultimi decenni, era stata protagonista di libri e film, era stata visitata da milioni di persone, aveva vinto titoli e riconoscimenti, ma ora era giunto il suo momento. Questo momento, per la verità, era giunto 25 anni fa quando il suo immenso fusto si era aperto a metà. Tutti gli attori possibili (Regione, Provincia, Comune di Treia, Corpo Forestale) si allearono per  impedire il funesto epilogo.
Questo, forse, ha regalato 25 anni di vita alla quercia, ma soprattutto ha permesso a noi uomini di godere ancora per un quarto di secolo della sua compagnia. Ma ora era giunto il momento di congedarci da lei. Secondo quanto diceva il prof. Alan Mitchell, massimo esperto mondiale di alberi monumentali, il limite di età di una quercia sarebbe di 500 anni. Secondo le risultanze dell’esame col resistografo effettuato dal prof. Bongarzoni, la quercia oggi avrebbe avuto 473 anni. Se, come dicono gli scienziati, il limite umano sono 120 anni, fatti i paragoni noi ci saremmo trovati davanti a una persona di 113 anni. C’erano già fior di arboricoltori che si erano proposti di curarla per allungarle la vita, ma la regina si è ribellata, e ha scelto il modo più dirompente e adeguato al suo titolo per uscire di scena. Nella notte fra il 18 e il 19, quasi verso mezzanotte, tutti gli abitanti di Passo di Treia sono stati richiamati da un fortissimo schianto. Tutti dobbiamo morire, anche gli alberi, e la Quercia di Passo di Treia ha scelto il modo più nobile per uscire di scena. Addio, Regina! Una cosa non ti perdono. Quando sei nata era ancora vivo Michelangelo. Poi hai visto nascere e morire i più grandi uomini della storia: Bernini, Alfieri, Napoleone, Manzoni, Leopardi, Verdi, Einstein… oltre a miliardi di persone più umili; dovevi scegliere proprio il breve arco di questa mia vita, per morire?

Valido Capodarca

(nelle didascalie delle foto è spiegato il meccanismo della sua morte)

Foto 1. Il fusto si è squarciato seguendo la traccia dell’incidente del 1998, quando si era fessurato fino quasi alla base. Se allora aveva resistito in piedi fino all’effettuazione dei lavori di ancoraggio è solo perché aveva le radici ancora sane. Nella foto vediamo adagiato un semifusto. La sua larghezza è di 210 cm; il fatto che la superficie del legno sia scura eccetto l’ultima porzione verso la base, significa che anche se rimesse a contatto dai tiranti, le due parti del tronco non si erano mai risaldate. 


Foto 2. L’altro semifusto, invece, si è diviso in tre porzioni, ognuna delle dimensioni del fusto di una grande quercia


Foto 3. L’apparato radicale appare totalmente marcio: un arboricoltore ci dirà il suo parere tecnico


Foto 4. Impressionante è constatare che tutti i rami secondari, nel forte impatto col suolo, si sono frammentati, come se fossero già secchi da tempo (invece, nonostante ciò, la quercia aveva riformato la sua chioma).


La storia:

Ovviamente, appena effettuate le misurazioni e scattate le foto, il discorso con il proprietario non poteva che avere come argomento la quercia. Il proprietario era Palmucci Gino, classe 1921, perciò 59 anni al momento del nostro incontro. Lo vediamo accanto alla sua amata quercia in questa foto. La famiglia Palmucci era in quella casa da molte generazioni; egli stesso era nato in quella casa. Secondo il suo parere la quercia aveva intorno ai 400 anni. Egli la ricordava sempre delle stesse dimensioni, ma anche sua nonna materna, che era entrata nella famiglia Palmucci una sessantina di anni prima, la ricordava sempre molto grande. Non aveva torto, il signor Gino, anzi, si era tenuto basso. Quando, intorno al 2000, la provincia di Macerata mise mano al libro “Alberi Custodi del tempo”, dando l’incarico di redigerlo al Corpo Forestale, l’età di tutti gli alberi che sarebbero stati presenti nel libro venne calcolata dal prof. Bongarzoni con il resistografo, una variante, meno invasiva, del succhiello di Pressler. Vennero contati 450 anelli e la quercia era la più vecchia della provincia di Macerata. Perciò nel 1980 ne aveva già 430. In tutto questo tempo, chissà di quanti episodi sarà stata protagonista o testimone, ma Gino raccontava solo alcuni di quelli cui era stato testimone. Nel 1944, durante il passaggio del Fronte, sotto la chioma della quercia le truppe polacche avevano allestito una officina per la riparazione di automezzi, che vi sarebbe rimasta per un certo tempo anche dopo che il fronte era passato.
Diversi anni dopo la quercia venne colpita da un fulmine che recise un ramo che, ridotto in ciocchi, fornì 20 quintali di legna. “Li vede ora – domandava Gino – che mancano 20 quintali? Beh, la perdita non si avvertiva nemmeno allora”. Un altro incidente era avvenuto quando un incendio si appiccò ad alcun e balle di paglia ammucchiate sotto la chioma. I rami più bassi vennero bruciacchiati, ma la quercia recuperò già alla primavera successiva. A fronte di questi episodi negativi, stavano i successi personali della quercia nei confronti degli organi di informazione. Perfino il programma della TV “A come agricoltura” condotto da Federico Fazzuoli, era arrivato con le sue telecamere dedicandole un servizio. Non erano mancati articoli di giornale. Frequenti erano i curiosi che, transitando sulla strada provinciale venivano colpiti dall’imponenza della pianta e si fermavano per vederla meglio o per farsi una foto. Gino Palmucci, anche perché giustamente orgoglioso della sua quercia, non diceva mai di no.
Ovviamente, quando il mio album di foto di grandi alberi divenne il libro “Marche, 50 alberi da salvare” (2004), la grande quercia di Gino Palmucci occupò un posto di gran rilievo. 



Considerazione di Caterina Regazzi: "Qualcuno aveva suggerito di mettere una targa, dove sorgeva la quercia, "a futura memoria". Secondo me sarebbe bene lasciare in loco i resti della roverella come nutrimento e ritorno alla Terra."



venerdì 23 giugno 2023

Treia. Rispettiamo le piante selvatiche...




C'è chi, per amore della Natura e della biodiversità, organizza corsi di riconoscimento delle erbe spontanee che crescono sulle mura del paese.

Mi piacerebbe che anche Treia, oltre che per la bella architettura, posizione geografica, panorama, feste e sagre come quella del bracciale, fosse conosciuta per come viene rispettata la Natura, con le sue erbe spontanee che ci provano a crescere, anche sui muri, oltre che nella campagna circostante, come l'Elicriso, la Cimbalaria muralis, i Capperi, la Piantaggine, la Mordigallina, la Cedracchia, ecc...

Io, nel mio piccolo, nel mio orto giardino urbano, ci provo a lasciarle crescere, con grande gioia di api e farfalle, a volte con qualche difficoltà. Vorrei che facessero una legge secondo la quale, le piante non si possano asportare, se non per un valido motivo (ad esempio per uso commestibile o medicinale).

Le piante ci fanno bene e rallegrano il cuore.

Caterina Regazzi



lunedì 19 giugno 2023

Il sogno agricolo di un contadino maceratese...



... da 15 anni faccio l'agricoltore tra Appignano e Macerata. Di anni ne ho 50.  Non sono un agricoltore normale, nel senso non pratico l'agricoltura convenzionale ma non ho mai nemmeno cercato di avere la certificazione biologica. 

Sento il bisogno  di condividere alcune cose sulla mia esperienza. Quando ho cominciato, senza terra e senza attrezzature - tutto in prestito o in affitto, facevo solo orticoltura. Volevo provare a mantenerci la famiglia e l'orto un po' lo sapevo fare ed era remunerativo (molto relativamente parlando). L'ho fatto per dieci anni e poi mi sono trasferito di qualche chilometro, in collina, perchè volevo fare l'agricoltore e non solo l'orticoltore.

L'orticoltura è diventata quindi una parte di un'agricoltura più complessa, più ricca e credo anche più giusta e che amo profondamente, mi realizza, mi fa sentire al posto mio. Credo che sia un privilegio tale da meritare  fatiche e rinunce personali che infatti non vivo come tali. Insomma sto bene. 

In questi anni ho potuto fare esperienza diretta e indiretta e sono giunto ad una conclusione di carattere generale: in un sistema dominato dall'agricoltura industriale, chi pratica un'agricoltura non industriale non riesce ad avere un reddito simile a quello di un dipendente poco qualificato. Il suo reddito è più basso. 

So che esistono luminose eccezioni che credo però non facciano che confermare questa regola generale. Io comunque non ne farei un dramma. Basta saperlo. 

Se fai il contadino hai anche uno stile di vita molto frugale e in fondo sei povero quando ti senti povero e poi sei sempre in una parte del mondo vergognosamente e ingiustamente ricca. Devi anche e soprattutto mettere in conto  che in un certo senso imponi ai figli una vita che gli altri per lo più non condividono. A me pare che stiano bene ma questa cosa comunque c'è. Anche questo bisogna saperlo. 

Detto tutto ciò (e chiarito che mia moglie non lavora con me e ha un reddito diverso e aggiuntivo che generosamente condivide) mi domando se non esista più di qualcun'altro nella mia stessa condizione, cioè un contadino un po' povero che si sente bene nei suoi panni. Se così fosse allora sarebbe più semplice avere il coraggio necessario ad andare avanti, facendo  scelte magari prudenti ma comunque orientate al futuro. 

Mi rendo conto che come manifesto politico fa un po' acqua da tutte le parti e soprattutto che le comunità non si inventano nè si programmano a tavolino, ma sento comunque il bisogno di dire questa cosa e se qualcuno vorrà rispondere tanto meglio. 

R. M. (Via Seminasogni)



Mia rispostina: Caro R.M., faccio parte anch'io del Seminasogni. Abito a Treia ed ho pensato di condividere la tua lettera poiché in parte ho vissuto anch'io il tuo sistema di vita, anche se saltuariamente e parzialmente. Il 24 giugno 2023 con altri amici di Treia  e della provincia di Macerata  organizziamo un incontro che potrebbe interessarti. Se vuoi puoi partecipare anche tu.  Qui il programma: http://bioregionalismo-treia.blogspot.com/2023/06/treia-24-giugno-2023-incontro.html

(Paolo D'Arpini)




sabato 3 giugno 2023

Viaggio a Treia - Notizie storiche sul luogo...




Andare a Treia? No problem...  basta offrire un po' di sana pubblicità, sperando che la voglia di "viaggiare" insita dentro ciascun libero "esploratore" di questo nostro splendido Universo, si lasci catturare amichevolmente dalle mie parole, rivolte, con immenso piacere, alla piccola e speciale cittadina di Treia!
La Storia:
380 a.C. circa, il primo insediamento, ad opera dei Piceni o dei
Sabini, è lungo un ramo della via Flaminia a circa due km dall’attuale
centro storico. Il luogo diventa colonia romana e prende nome da
un’antica divinità, Trea.

II sec. a. C., Treia diventa municipio romano.
X sec. (inizio), gli abitanti della Trea romana, per sfuggire ai
ripetuti saccheggi, individuano un luogo più sicuro sui colli e
costruiscono il nuovo borgo che prende il nome di Montecchio, da
monticulum, piccolo monte.

XIII sec., Montecchio si dota di un sistema difensivo comprendente una
possente cinta muraria e si allarga fino a comprendere tre castelli
edificati su tre colli, Onglavina, Elce e Cassero. Nel 1239 è
assediata dalle truppe di Enzo, figlio naturale di Federico II, e nel
1263 da quelle di Corrado d’Antiochia, comandante imperiale che viene
catturato dai treiesi.

XIV sec., Montecchio passa alla signoria dei Da Varano e poi a
Francesco Sforza.
1447, posta dal Pontefice sotto il controllo di Alfonso d’Aragona,
Montecchio viene in seguito ceduta da Giulio II al cardinale Cesi, e
da allora segue le sorti dello Stato della Chiesa.
1778, si apre la prima sezione pubblica dell’Accademia Georgica dei
Sollevati, importante centro culturale ispirato ai principi
dell’Illuminismo.
1790, il Pontefice Pio VI restituisce al luogo l'antico nome di Treia,
elevandolo al rango di città. Il mistero dell’infinito...
Mura turrite che evocano il Duecento, ma anche tanti palazzi
neoclassici che fanno di Treia un borgo, anzi una cittadina, rigorosa
ed elegante, arroccata su un colle ma razionale nella struttura.
L’incanto si dispiega già nella scenografica piazza della Repubblica,
che accoglie il visitatore con una bianca balaustra a ferro di cavallo
e le nobili geometrie su cui si accende il colore del mattone. E
questo ocra presente in tutte le sfumature, dentro il mare di verde
del morbido paesaggio marchigiano, è un po’ la cifra del luogo. La
piazza è incorniciata su tre lati dalla palazzina dell'Accademia
Georgica, opera del Valadier, dal Palazzo Comunale (XVI-XVII sec.) che
ospita il Museo Civico e dalla Cattedrale (XVIII sec.), uno dei
maggiori edifici religiosi della regione. Dedicata alla SS.
Annunziata, è stata costruita su disegno di Andrea Vici, discepolo del
Vanvitelli, e custodisce diverse opere d’arte tra cui una pala di
Giacomo da Recanati. Sotto la panoramica piazza s’innalza il muro di
cinta dell’arena, inaugurata nel 1818 e poi dedicata al giocatore di
pallone Carlo Didimi.

Da Porta Garibaldi ha inizio l’aspra salita per le strade basse, un
dedalo di viuzze parallele al corso principale e collegate tra loro da
vicoli e scalette. Qui un tempo avevano bottega gli artigiani della
ceramica. Continuando per la circonvallazione, a destra la vista si
apre su un panorama di campi rigogliosi e colline ondulate. L’estremo
baluardo del paese verso sud è la Torre Onglavina, parte dell’antico
sistema fortificato, eretta nel XII secolo. Il luogo è un balcone
sulle Marche silenziose, che abbraccia in lontananza il mare e i monti
Sibillini.

Entrando per Porta Palestro si arriva in piazza Don Cervigni, dove a
sinistra risalta la chiesa di San Michele, romanica con elementi
gotici; e di fronte, la piccola chiesa barocca di Santa Chiara con la
statua della Madonna di Loreto: quella originale, secondo la
tradizione. Proseguendo per via dei Mille, si attraversa il quartiere
dell’Onglavina che offrì dimora a una comunità di zingari, al cui
folklore si ispira in parte la Disfida del Bracciale. Dalle vie Roma e
Cavour, fiancheggiate da palazzi eleganti che conservano sulle
facciate evidenti tracce dei periodi rinascimentale e tardo
settecentesco, e denotano la presenza di un ceto aristocratico e di
una solida borghesia, si diramano strade e scalinate. Nell’intrico dei
palazzi, due chiese: San Francesco e Santa Maria del Suffragio. E tra
di esse, un curioso edificio: la Rotonda. Nei pressi, la casa dove
visse Dolores Prato, ricordata da una lapide, e il Teatro Comunale,
inaugurato il 4 gennaio 1821 e dotato nel 1865 di uno splendido
sipario dipinto dal pittore romano Silverio Copparoni, raffigurante
l’assedio di Montecchio. Il soffitto è decorato con affreschi e motivi
floreali arricchiti nel contorno da ritratti di letterati e musicisti;
la parte centrale reca simboli e figure dell’arte scenica

Si può lasciare Treia uscendo dall’imponente Porta Vallesacco del XIII
secolo, uno dei sette antichi ingressi, per rituffarsi nel verde.
Resta da vedere, in località San Lorenzo, il Santuario del Crocefisso
dove, sul basamento del campanile e all’entrata del convento, sono
inglobati reperti della Trea romana, tra cui un mosaico con ibis. Qui
sorgeva l’antica pieve, edificata sui resti del tempio di Iside. Il
santuario conserva un pregevole crocefisso quattrocentesco che la
tradizione vuole scolpito da un angelo e che, secondo alcuni, rivela
l’arte del grande Donatello.
Antonella Pedicelli 


 




Articolo tratto dal libro "Treia: storie di vita bioregionale" di Paolo D'Arpini reperibile presso la biblioteca Auser Treia. Info: 0733/216293


sabato 29 aprile 2023

Meraviglie della Provincia di Macerata sconosciute o poco note: il Castello della Rancia a Tolentino (l'omonimo paese di San Nicola)



Il castello della Rancia si trova a pochi chilometri da Tolentino. Si tratta di un maniero imponente costruito nel 1353 dall’architetto Andrea da Como per ordine del capitano di ventura Rodolfo da Varano.

Teatro di numerose battaglie e di intrighi politici è noto per la presunta esistenza di un intrico di tunnel sotterranei, alcuni artificiali, altri naturali, che, secondo la tradizione condurrebbero ad un ricchissimo tesoro. Il percorso sarebbe però costellato di trappole di ogni tipo tra cui il famigerato " pozzo delle lame " cadendo nel quale difficilmente avreste una seconda chance di riuscire a diventare ricchi.

Il castello, di forma quadrangolare, è composto da una cinta merlata rafforzata da tre torri angolari. A difesa dell'ingresso principale del castello si eleva una delle torri a cui si accedeva mediante un ponte levatoio, sostituito in seguito da uno in muratura. Il mastio, nucleo originario della preesistente grancia, è alto circa 30 metri ed è costituito da quattro piani, di cui i primi tre sono voltati a crociera. Al secondo piano, fornito di un ampio camino e
raggiungibile tramite una scala a chiocciola in pietra, si trovava l'alloggio del granciario e poi del castellano.

Il piano seminterrato del mastio, illuminato da due alte feritole a bocca di lupo, fu un tempo usato come prigione come indicano i grossi anelli in ferro infissi alle pareti.

Il Castello deve il suo nome ad un preesistente deposito di grano (denominato "grancia" dal latino granica e dal francese grange) utilizzato dai monaci cirstercensi dell'Abbazia di Chiaravalle di Fiastra alla fine del XII secolo.

Quando i Gesuiti si insediarono all'Abbadia di Fiastra nel 1581, il Castello perse le sue connotazioni militari e venne riorganizzato come grande casa colonica adibita all'ospitalità e al ristoro dei pellegrini. Nel 1782 il Papa Pio VI sostò nei pressi della Rancia e in questa occasione concesse tutti i beni dell'Abbadia di Fiastra,compreso anche il castello,alla nobile famiglia Bandini la cui ultima discendente, Maria Sofia Gravina di Ramacca, nel 1974 lo cedette al Comune di Tolentino, oggi attuale proprietario.

Antonella Pedicelli



lunedì 27 marzo 2023

Treia. 2 aprile 2023 - Domenica delle Palme

 


2 aprile 2023, domenica delle Palme, giunge a Treia la mia compagna Caterina Regazzi,  la cosa mi è sembrata di buon auspicio, e per questo scrivo  qualcosa sulla consuetudine di offrire rami d’ulivo in chiesa e sull’asino, umile  compagno di viaggio del Figlio dell’uomo.
 
L’asino è un animale molto intrigante, simboleggia ignoranza e intelligenza. Giuseppe su un’asina condusse Maria e Gesù in Egitto, e Cristo su un’asina bianca entrò a Gerusalemme la domenica delle Palme.
 
Secondo Giordano Bruno l’asino era la creatura più sapiente, ma la storia e la letteratura gli hanno riservato un ingiusto trattamento: l’asino e’ stato sbeffeggiato e insultato. E anche oggi, quando lo si nomina, spesso è  solo per ricordarne la testardaggine o la scarsa intelligenza. Il simpatico animale ha avuto però   una possibilità di rivincita.  
 
L’ulivo è l’albero più significativo delle tre religioni monoteistiche che con il suo olio “crea la luce”, che è “l’asse immobile della terra”, che rappresenta Abramo l’antenato comune degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani. Il ramoscello d’ulivo portato dalla colomba a Noé é anche qui il segnale di nuova luce e la ripresa della vita sulla terra.
 
Buona domenica delle Palme a tutti! 
 
Paolo D’Arpini