lunedì 18 settembre 2023

Treia. Tra le mura gli orti...

 


Da diversi anni mi sono trasferito a Treia, un tipico borgo marchigiano in provincia di Macerata che a Macerata molto somiglia, in piccolo, almeno nella struttura architettonica, essendo circondato da mura maestose, in buono stato di conservazione, e con al suo interno numerosi spazi verdi. Questi spazi, nei tempi che furono, avevano la funzione di garantire l'approvvigionamento minuto di vegetali freschi. Vengono infatti ancora definiti "orti urbani". I tempi son cambiati e non ci sono più rischi, perlomeno si spera, che la città venga assediata da truppe nemiche e che quindi in qualche modo debba sostenersi con quel poco che riesce a produrre al suo interno. Molti di questi "orti urbani" di Treia oggi sono stati trasformati in giardini, sia pubblici che privati, oppure son diventati prati e boschetti per far giocare i bambini o come luoghi di relax per anziani.



Anch'io, grazie alla mia compagna Caterina, dispongo di un orto urbano che è una via di mezzo tra quelli dedicati espressamente alla coltivazione e quelli che vengono lasciati alla natura. Potrei chiamarlo un "orto urbano bioregionale", ovvero un terreno racchiuso fra le case con qualche albero da frutto e con erbe officinali e commestibili che vi crescono quasi spontaneamente. Infatti questa è la differenza tra un terreno completamente abbandonato ed uno in cui la presenza dell'uomo si fa ancora sentire, non però invasivamente, e questa mi sembra una giusta via di mezzo per convivere con altri esseri nella natura, senza rinunciare alla socializzazione ed al godimento di raccogliere una produzione propria.

Ovviamente l'orto di cui vi parlo non è stato inquinato da sostanze chimiche e nemmeno annaffiato artificialmente con l'acqua pubblica (salvo casi eccezionali). Piccoli accorgimenti sono stati da me presi per la conservazione delle acque piovane come pure cerco di trovare sistemi biologici per contrastare l'eccessiva presenza di animaletti considerati "nocivi" (lumache, insetti e pidocchi delle piante, etc.). Infatti la presenza dell'uomo  in un orto "bioregionale" dovrebbe essere quella del "calmieratore" e dovrebbe contribuire all'armonizzazione del biosistema che spontaneamente si viene  a creare.

Noi siamo abituati a pensare che un orto debba essere un fondo ben lavorato ed in cui crescono pomodori, zucchine, peperoni, melanzane, patate, etc. Senza però considerare che tutti questi vegetali non sono autoctoni, non appartengono alla nostra storia alimentare, sono stati tutti importati dalle Americhe e noi ne abbiamo fatto la base della nostra alimentazione. Cosa cresceva negli orti marchigiani sino a duecento o trecento anni fa? Partendo da questo interrogativo dovremmo cercare di fare un passo indietro e scoprirlo con i nostri occhi frequentando quei pochi terreni in cui l'uomo non è intervenuto massicciamente.

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Potremmo cominciare individuando tutta una serie di piante commestibili ed officinali che ancora crescono stagionalmente in natura: ramolaccio, erbe aromatiche, crespigni, agli selvatici, cicorie, piantaggine, porcacchia, finocchiella, etc. Potremmo raccogliere i semi di queste piante e spargerli a spaglio nel nostro orto  e vedere quali riescono ad attecchire. Molte piante crescono bene in compagnia e se si vuole mantenere l'umidità naturale nel terreno non sarà necessario vangare o zappare per estirpare l'erba che non ci interessa. Ed è esattamente quel che ho fatto anch'io.

In fondo ogni erba può avere la sua funzione anche quella che ci sembra la più inutile o infestante. Certo se scopriamo che un certo tipo di pianta tende ad allargarsi troppo possiamo cercare di contenerla. Questo- ad esempio- è il caso della parietaria, che cresce spontanea in prossimità dei muri, ma non è poi così inutile infatti è un'erba mangereccia, ricca di minerali e di calcio, tant'è che le galline ne vanno ghiotte. Ciò significa che nel nostro orto urbano bioregionale potremmo anche tentare di tenere in un piccolo recinto un paio di questi volatili, in modo da poterci disfare con profitto delle erbe in eccesso ed anche delle lumache e degli insetti, ed anche questo è stato un esperimento da me tentato, con due galline di batteria salvate dal macello, purtroppo non andato a buon fine per l'ostilità di alcuni vicini  non più abituati alla presenza di animali da cortile. 

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Altro animaletto che  avevo pensato di accogliere  è il riccio, utilissimo a limitare la presenza di pest ma non ne ho ancora trovato uno disposto a trasferirsi. In compenso l'orto è stato colonizzato da alcuni gatti che lo tengono libero dai roditori indesiderati.

Ma ora torno all'analisi delle coltivazioni possibili. Dopo aver osservato quali tipi di piante si acclimatano e si riproducono nel piccolo spazio verde a mia disposizione sono stato in grado di capire quali altri vegetali coltivati possono essere inseriti nel contesto, si tratta di biete, cicorioni, spinaci, brassicacee, agli e cipolle, etc. Avrete notato che non ho per nulla menzionato i soliti ortaggi che conosciamo, quelli che vi descrivevo all'inizio del racconto, ed infatti -secondo me- nell'orto dovrebbero crescere solo piante adatte al territorio ed al clima in cui viviamo, ed infatti ho tentato di inserivi quei pomidorini gialli semi selvatici che crescono da soli, quasi senza acqua, ed i topinambur che non richiedono grandi cure perché non son attaccati dai pest come le patate.

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In questo orto bioregionale di Treia ci stanno anche quattro piante di olive di San Francesco, piantate dai genitori di Caterina, ottime da fare in salamoia per l'inverno,  ed io vi ho inserito un alberello di mele che già fa frutto, prossimamente vorrei aggiungervi anche un caco ed ovviamente un fico e -perché no- una vite di uva fragola. Non mancano rosmarino ed altre aromatiche in modo da avere sempre a disposizione foglie per tisane e per condimenti. Credo che ciò possa bastare per vivere in città facendo pace con la natura, e questa pace può essere vissuta in compagnia di amici che amano l'ambiente. Il picnic è un ottimo metodo per convivializzare come pure lo è la raccolta stagionale dei frutti.

In questo modo il toccare la terra ci diviene sempre più familiare ed è  più facile coinvolgere i neofiti nell'azione collettiva di dedicarsi ad una produzione casalinga di cibo sano. Il  diverso sapore  ci fa capire l'importanza dell'autoproduzione e la conoscenza di erbe spontanee commestibili (a portata di mano) aiuta la sopravvivenza creativa e la buona qualità della vita.

Paolo D'Arpini

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L'orto di Treia descritto da Caterina Regazzi:   https://www.youtube.com/watch?v=PmbBF9sQIMM

domenica 17 settembre 2023

Treia e l’artigiano che conosce bene i muri del santuario del SS. Crocifisso...

 


Tempo addietro, in una calda giornata di metà settembre, feci quattro chiacchiere con un anziano artigiano di Treia, incontrato in piazza, si chiama Luigi (Gigetto di soprannome),  egli mi raccontò (oltre che parlarmi della sua famiglia) alcune storie interessanti sugli eventi locali, ad esempio mi ha confidato che lui era il muratore “ufficiale” del santuario francescano del SS. Crocifisso, costruito sopra le rovine di un antico tempio dedicato ad Iside, ove in epoca romana insisteva l’antica città chiamata Trea (che poi in epoca medioevale si spostò sulla collina chiamata Montecchio,  recuperando infine -grazie ad un papa-  il nome di Treia).

Egli afferma di aver assistito a tutti gli scavi effettuati dagli archeologi di Macerata per recuperare le vestigia antiche ed i reperti rinvenuti furono poi suddivisi tra il museo di Macerata e quello di Treia. Attualmente alcuni piccoli cocci incastonati nel frontale del monastero, in cui sono raffigurati Iside, un cinghiale ed altri simboli, sono in realtà delle copie. Poi mi ha fatto vedere una foto di una riproduzione di un famoso quadro della Madonna, che lui conserva a casa sua, ereditata da suo nonno, l’originale è attualmente custodito nel Duomo, di cui nei prossimi giorni si festeggia il bicentenario.

Infine  mi ha anche detto di aver abitato per un certo periodo nella casa in cui ora risiedo, e di averci  fatto dei lavori di restauro. La cosa successe  parecchi anni fa quando per una serie di circostanze si trovò senza casa e fu ospitato da Annetta, la nonna di Caterina. Mi ha narrato anche altre cosette interessanti, come ad esempio di quella volta che difese il padre di Caterina, Fausto, dall’aggressione di un “destrorso” (che non aveva gradito di essere stato da lui invitato ad una manifestazione comunista)  e così ho raccolto queste testimonianze (ed altre ancora che per il momento non vi racconto) che potrò forse inserire su una nuova edizione riveduta e corretta del mio libro "Treia: storie di vita bioregionale"  al quale sto lavorando... Intanto vi informo che l'edizione corrente di questo libro è reperibile presso la biblioteca di Auser Treia...

Paolo D’Arpini



venerdì 4 agosto 2023

Treia, 13 agosto 2023 - Festa dell’acquacotta...

 


E' arrivato il momento dell’incontro in campagna, qualche erba selvatica, una crosta di pane e di cacio.... Ecco la festa paesana per eccellenza, dedicata ai compagni di viaggio, quelli del “when the saints go marching in…”

Per l'occasione, assieme agli amici di Auser Treia,   invitiamo tutti i nostri compagni di viaggio che seguono il nostro stesso “sentiero” a partecipare al rito dell'acquacotta…

E’ un invito al riposo, al ritorno, nel grembo accogliente della Terra… in questo periodo infatti tutti i semi tendono pian piano a cadere sulla superficie del terreno, in attesa che le piogge autunnali inizino a creare l’humus necessario alla successiva rinascita. 

Tradizionalmente trascorriamo questa giornata oziando e passeggiando, raccogliendo erbe aromatiche e cercando acque fresche alle sorgenti. Alla fine ne esce fuori un “hemlot” come dicono gli inglesi, noi la chiamiamo “acquacotta”. Una bevanda cibo con tutti i sapori e gli odori che la natura ci da in questo momento.

Il 13 agosto 2023, alle ore 18,  appuntamento a contrada Moje di Treia al 34, nei pressi della sorgente del Pisciarello, sul terreno di Chiara e Andrea. La festa inizia con un bagno  sonoro di gong eseguito da Barbara Bianchini, seguirà la presentazione di "Quando non zappo a volte scrivo..." di Felice da San Severino ed un discorsetto di Paolo D'Arpini sull'Alimentazione Bioregionale (basato sul libro edito da Edizioni Nisroch di Macerata).  La serata si conclude con un picnic  e la degustazione dell'acquacotta, con accompagnamento della musica popolare  di  Chiara ed Andrea ed altri suonatori e  l'invito a danzare sul prato. 

Caterina Regazzi









domenica 23 luglio 2023

"Epitaffio e memoria sulla Roverella di Passo Treia" di Valido Capodarca

 

Ammiriamo la grande quercia in quello che è stato il suo ultimo periodo di splendore, in questa foto del 2005. Per gli esperti e gli appassionati, queste le misure: m. 6,50 la circonferenza del fusto, m. 34 il diametro della chioma, m. 23 l’altezza. 450 anni (in questa foto) molto ben portati.


Sono appena tornato dall’aver reso omaggio ai resti mortali di una sovrana.
Mentre, in auto, percorrevo i circa 60 km che separano il mio paese da Passo di Treia, pensavo di dover scrivere il solito panegirico contro la lentezza della burocrazia, contro la negligenza umana che lascia morire un monumento di questa sorta. Invece, appena davanti all’immenso corpo sbriciolato, ho pensato che sia giusto così.
La quercia di Passo di Treia, la più grande quercia marchigiana, per tutta la sua lunghissima vita, ma specialmente negli ultimi decenni, era stata protagonista di libri e film, era stata visitata da milioni di persone, aveva vinto titoli e riconoscimenti, ma ora era giunto il suo momento. Questo momento, per la verità, era giunto 25 anni fa quando il suo immenso fusto si era aperto a metà. Tutti gli attori possibili (Regione, Provincia, Comune di Treia, Corpo Forestale) si allearono per  impedire il funesto epilogo.
Questo, forse, ha regalato 25 anni di vita alla quercia, ma soprattutto ha permesso a noi uomini di godere ancora per un quarto di secolo della sua compagnia. Ma ora era giunto il momento di congedarci da lei. Secondo quanto diceva il prof. Alan Mitchell, massimo esperto mondiale di alberi monumentali, il limite di età di una quercia sarebbe di 500 anni. Secondo le risultanze dell’esame col resistografo effettuato dal prof. Bongarzoni, la quercia oggi avrebbe avuto 473 anni. Se, come dicono gli scienziati, il limite umano sono 120 anni, fatti i paragoni noi ci saremmo trovati davanti a una persona di 113 anni. C’erano già fior di arboricoltori che si erano proposti di curarla per allungarle la vita, ma la regina si è ribellata, e ha scelto il modo più dirompente e adeguato al suo titolo per uscire di scena. Nella notte fra il 18 e il 19, quasi verso mezzanotte, tutti gli abitanti di Passo di Treia sono stati richiamati da un fortissimo schianto. Tutti dobbiamo morire, anche gli alberi, e la Quercia di Passo di Treia ha scelto il modo più nobile per uscire di scena. Addio, Regina! Una cosa non ti perdono. Quando sei nata era ancora vivo Michelangelo. Poi hai visto nascere e morire i più grandi uomini della storia: Bernini, Alfieri, Napoleone, Manzoni, Leopardi, Verdi, Einstein… oltre a miliardi di persone più umili; dovevi scegliere proprio il breve arco di questa mia vita, per morire?

Valido Capodarca

(nelle didascalie delle foto è spiegato il meccanismo della sua morte)

Foto 1. Il fusto si è squarciato seguendo la traccia dell’incidente del 1998, quando si era fessurato fino quasi alla base. Se allora aveva resistito in piedi fino all’effettuazione dei lavori di ancoraggio è solo perché aveva le radici ancora sane. Nella foto vediamo adagiato un semifusto. La sua larghezza è di 210 cm; il fatto che la superficie del legno sia scura eccetto l’ultima porzione verso la base, significa che anche se rimesse a contatto dai tiranti, le due parti del tronco non si erano mai risaldate. 


Foto 2. L’altro semifusto, invece, si è diviso in tre porzioni, ognuna delle dimensioni del fusto di una grande quercia


Foto 3. L’apparato radicale appare totalmente marcio: un arboricoltore ci dirà il suo parere tecnico


Foto 4. Impressionante è constatare che tutti i rami secondari, nel forte impatto col suolo, si sono frammentati, come se fossero già secchi da tempo (invece, nonostante ciò, la quercia aveva riformato la sua chioma).


La storia:

Ovviamente, appena effettuate le misurazioni e scattate le foto, il discorso con il proprietario non poteva che avere come argomento la quercia. Il proprietario era Palmucci Gino, classe 1921, perciò 59 anni al momento del nostro incontro. Lo vediamo accanto alla sua amata quercia in questa foto. La famiglia Palmucci era in quella casa da molte generazioni; egli stesso era nato in quella casa. Secondo il suo parere la quercia aveva intorno ai 400 anni. Egli la ricordava sempre delle stesse dimensioni, ma anche sua nonna materna, che era entrata nella famiglia Palmucci una sessantina di anni prima, la ricordava sempre molto grande. Non aveva torto, il signor Gino, anzi, si era tenuto basso. Quando, intorno al 2000, la provincia di Macerata mise mano al libro “Alberi Custodi del tempo”, dando l’incarico di redigerlo al Corpo Forestale, l’età di tutti gli alberi che sarebbero stati presenti nel libro venne calcolata dal prof. Bongarzoni con il resistografo, una variante, meno invasiva, del succhiello di Pressler. Vennero contati 450 anelli e la quercia era la più vecchia della provincia di Macerata. Perciò nel 1980 ne aveva già 430. In tutto questo tempo, chissà di quanti episodi sarà stata protagonista o testimone, ma Gino raccontava solo alcuni di quelli cui era stato testimone. Nel 1944, durante il passaggio del Fronte, sotto la chioma della quercia le truppe polacche avevano allestito una officina per la riparazione di automezzi, che vi sarebbe rimasta per un certo tempo anche dopo che il fronte era passato.
Diversi anni dopo la quercia venne colpita da un fulmine che recise un ramo che, ridotto in ciocchi, fornì 20 quintali di legna. “Li vede ora – domandava Gino – che mancano 20 quintali? Beh, la perdita non si avvertiva nemmeno allora”. Un altro incidente era avvenuto quando un incendio si appiccò ad alcun e balle di paglia ammucchiate sotto la chioma. I rami più bassi vennero bruciacchiati, ma la quercia recuperò già alla primavera successiva. A fronte di questi episodi negativi, stavano i successi personali della quercia nei confronti degli organi di informazione. Perfino il programma della TV “A come agricoltura” condotto da Federico Fazzuoli, era arrivato con le sue telecamere dedicandole un servizio. Non erano mancati articoli di giornale. Frequenti erano i curiosi che, transitando sulla strada provinciale venivano colpiti dall’imponenza della pianta e si fermavano per vederla meglio o per farsi una foto. Gino Palmucci, anche perché giustamente orgoglioso della sua quercia, non diceva mai di no.
Ovviamente, quando il mio album di foto di grandi alberi divenne il libro “Marche, 50 alberi da salvare” (2004), la grande quercia di Gino Palmucci occupò un posto di gran rilievo. 



Considerazione di Caterina Regazzi: "Qualcuno aveva suggerito di mettere una targa, dove sorgeva la quercia, "a futura memoria". Secondo me sarebbe bene lasciare in loco i resti della roverella come nutrimento e ritorno alla Terra."



venerdì 23 giugno 2023

Treia. Rispettiamo le piante selvatiche...




C'è chi, per amore della Natura e della biodiversità, organizza corsi di riconoscimento delle erbe spontanee che crescono sulle mura del paese.

Mi piacerebbe che anche Treia, oltre che per la bella architettura, posizione geografica, panorama, feste e sagre come quella del bracciale, fosse conosciuta per come viene rispettata la Natura, con le sue erbe spontanee che ci provano a crescere, anche sui muri, oltre che nella campagna circostante, come l'Elicriso, la Cimbalaria muralis, i Capperi, la Piantaggine, la Mordigallina, la Cedracchia, ecc...

Io, nel mio piccolo, nel mio orto giardino urbano, ci provo a lasciarle crescere, con grande gioia di api e farfalle, a volte con qualche difficoltà. Vorrei che facessero una legge secondo la quale, le piante non si possano asportare, se non per un valido motivo (ad esempio per uso commestibile o medicinale).

Le piante ci fanno bene e rallegrano il cuore.

Caterina Regazzi



lunedì 19 giugno 2023

Il sogno agricolo di un contadino maceratese...



... da 15 anni faccio l'agricoltore tra Appignano e Macerata. Di anni ne ho 50.  Non sono un agricoltore normale, nel senso non pratico l'agricoltura convenzionale ma non ho mai nemmeno cercato di avere la certificazione biologica. 

Sento il bisogno  di condividere alcune cose sulla mia esperienza. Quando ho cominciato, senza terra e senza attrezzature - tutto in prestito o in affitto, facevo solo orticoltura. Volevo provare a mantenerci la famiglia e l'orto un po' lo sapevo fare ed era remunerativo (molto relativamente parlando). L'ho fatto per dieci anni e poi mi sono trasferito di qualche chilometro, in collina, perchè volevo fare l'agricoltore e non solo l'orticoltore.

L'orticoltura è diventata quindi una parte di un'agricoltura più complessa, più ricca e credo anche più giusta e che amo profondamente, mi realizza, mi fa sentire al posto mio. Credo che sia un privilegio tale da meritare  fatiche e rinunce personali che infatti non vivo come tali. Insomma sto bene. 

In questi anni ho potuto fare esperienza diretta e indiretta e sono giunto ad una conclusione di carattere generale: in un sistema dominato dall'agricoltura industriale, chi pratica un'agricoltura non industriale non riesce ad avere un reddito simile a quello di un dipendente poco qualificato. Il suo reddito è più basso. 

So che esistono luminose eccezioni che credo però non facciano che confermare questa regola generale. Io comunque non ne farei un dramma. Basta saperlo. 

Se fai il contadino hai anche uno stile di vita molto frugale e in fondo sei povero quando ti senti povero e poi sei sempre in una parte del mondo vergognosamente e ingiustamente ricca. Devi anche e soprattutto mettere in conto  che in un certo senso imponi ai figli una vita che gli altri per lo più non condividono. A me pare che stiano bene ma questa cosa comunque c'è. Anche questo bisogna saperlo. 

Detto tutto ciò (e chiarito che mia moglie non lavora con me e ha un reddito diverso e aggiuntivo che generosamente condivide) mi domando se non esista più di qualcun'altro nella mia stessa condizione, cioè un contadino un po' povero che si sente bene nei suoi panni. Se così fosse allora sarebbe più semplice avere il coraggio necessario ad andare avanti, facendo  scelte magari prudenti ma comunque orientate al futuro. 

Mi rendo conto che come manifesto politico fa un po' acqua da tutte le parti e soprattutto che le comunità non si inventano nè si programmano a tavolino, ma sento comunque il bisogno di dire questa cosa e se qualcuno vorrà rispondere tanto meglio. 

R. M. (Via Seminasogni)



Mia rispostina: Caro R.M., faccio parte anch'io del Seminasogni. Abito a Treia ed ho pensato di condividere la tua lettera poiché in parte ho vissuto anch'io il tuo sistema di vita, anche se saltuariamente e parzialmente. Il 24 giugno 2023 con altri amici di Treia  e della provincia di Macerata  organizziamo un incontro che potrebbe interessarti. Se vuoi puoi partecipare anche tu.  Qui il programma: http://bioregionalismo-treia.blogspot.com/2023/06/treia-24-giugno-2023-incontro.html

(Paolo D'Arpini)




sabato 3 giugno 2023

Viaggio a Treia - Notizie storiche sul luogo...




Andare a Treia? No problem...  basta offrire un po' di sana pubblicità, sperando che la voglia di "viaggiare" insita dentro ciascun libero "esploratore" di questo nostro splendido Universo, si lasci catturare amichevolmente dalle mie parole, rivolte, con immenso piacere, alla piccola e speciale cittadina di Treia!
La Storia:
380 a.C. circa, il primo insediamento, ad opera dei Piceni o dei
Sabini, è lungo un ramo della via Flaminia a circa due km dall’attuale
centro storico. Il luogo diventa colonia romana e prende nome da
un’antica divinità, Trea.

II sec. a. C., Treia diventa municipio romano.
X sec. (inizio), gli abitanti della Trea romana, per sfuggire ai
ripetuti saccheggi, individuano un luogo più sicuro sui colli e
costruiscono il nuovo borgo che prende il nome di Montecchio, da
monticulum, piccolo monte.

XIII sec., Montecchio si dota di un sistema difensivo comprendente una
possente cinta muraria e si allarga fino a comprendere tre castelli
edificati su tre colli, Onglavina, Elce e Cassero. Nel 1239 è
assediata dalle truppe di Enzo, figlio naturale di Federico II, e nel
1263 da quelle di Corrado d’Antiochia, comandante imperiale che viene
catturato dai treiesi.

XIV sec., Montecchio passa alla signoria dei Da Varano e poi a
Francesco Sforza.
1447, posta dal Pontefice sotto il controllo di Alfonso d’Aragona,
Montecchio viene in seguito ceduta da Giulio II al cardinale Cesi, e
da allora segue le sorti dello Stato della Chiesa.
1778, si apre la prima sezione pubblica dell’Accademia Georgica dei
Sollevati, importante centro culturale ispirato ai principi
dell’Illuminismo.
1790, il Pontefice Pio VI restituisce al luogo l'antico nome di Treia,
elevandolo al rango di città. Il mistero dell’infinito...
Mura turrite che evocano il Duecento, ma anche tanti palazzi
neoclassici che fanno di Treia un borgo, anzi una cittadina, rigorosa
ed elegante, arroccata su un colle ma razionale nella struttura.
L’incanto si dispiega già nella scenografica piazza della Repubblica,
che accoglie il visitatore con una bianca balaustra a ferro di cavallo
e le nobili geometrie su cui si accende il colore del mattone. E
questo ocra presente in tutte le sfumature, dentro il mare di verde
del morbido paesaggio marchigiano, è un po’ la cifra del luogo. La
piazza è incorniciata su tre lati dalla palazzina dell'Accademia
Georgica, opera del Valadier, dal Palazzo Comunale (XVI-XVII sec.) che
ospita il Museo Civico e dalla Cattedrale (XVIII sec.), uno dei
maggiori edifici religiosi della regione. Dedicata alla SS.
Annunziata, è stata costruita su disegno di Andrea Vici, discepolo del
Vanvitelli, e custodisce diverse opere d’arte tra cui una pala di
Giacomo da Recanati. Sotto la panoramica piazza s’innalza il muro di
cinta dell’arena, inaugurata nel 1818 e poi dedicata al giocatore di
pallone Carlo Didimi.

Da Porta Garibaldi ha inizio l’aspra salita per le strade basse, un
dedalo di viuzze parallele al corso principale e collegate tra loro da
vicoli e scalette. Qui un tempo avevano bottega gli artigiani della
ceramica. Continuando per la circonvallazione, a destra la vista si
apre su un panorama di campi rigogliosi e colline ondulate. L’estremo
baluardo del paese verso sud è la Torre Onglavina, parte dell’antico
sistema fortificato, eretta nel XII secolo. Il luogo è un balcone
sulle Marche silenziose, che abbraccia in lontananza il mare e i monti
Sibillini.

Entrando per Porta Palestro si arriva in piazza Don Cervigni, dove a
sinistra risalta la chiesa di San Michele, romanica con elementi
gotici; e di fronte, la piccola chiesa barocca di Santa Chiara con la
statua della Madonna di Loreto: quella originale, secondo la
tradizione. Proseguendo per via dei Mille, si attraversa il quartiere
dell’Onglavina che offrì dimora a una comunità di zingari, al cui
folklore si ispira in parte la Disfida del Bracciale. Dalle vie Roma e
Cavour, fiancheggiate da palazzi eleganti che conservano sulle
facciate evidenti tracce dei periodi rinascimentale e tardo
settecentesco, e denotano la presenza di un ceto aristocratico e di
una solida borghesia, si diramano strade e scalinate. Nell’intrico dei
palazzi, due chiese: San Francesco e Santa Maria del Suffragio. E tra
di esse, un curioso edificio: la Rotonda. Nei pressi, la casa dove
visse Dolores Prato, ricordata da una lapide, e il Teatro Comunale,
inaugurato il 4 gennaio 1821 e dotato nel 1865 di uno splendido
sipario dipinto dal pittore romano Silverio Copparoni, raffigurante
l’assedio di Montecchio. Il soffitto è decorato con affreschi e motivi
floreali arricchiti nel contorno da ritratti di letterati e musicisti;
la parte centrale reca simboli e figure dell’arte scenica

Si può lasciare Treia uscendo dall’imponente Porta Vallesacco del XIII
secolo, uno dei sette antichi ingressi, per rituffarsi nel verde.
Resta da vedere, in località San Lorenzo, il Santuario del Crocefisso
dove, sul basamento del campanile e all’entrata del convento, sono
inglobati reperti della Trea romana, tra cui un mosaico con ibis. Qui
sorgeva l’antica pieve, edificata sui resti del tempio di Iside. Il
santuario conserva un pregevole crocefisso quattrocentesco che la
tradizione vuole scolpito da un angelo e che, secondo alcuni, rivela
l’arte del grande Donatello.
Antonella Pedicelli 


 




Articolo tratto dal libro "Treia: storie di vita bioregionale" di Paolo D'Arpini reperibile presso la biblioteca Auser Treia. Info: 0733/216293